LA GENESI DELLE FORME COME ALBA DEL VISIBILE.

Quella di Camporese è una pittura che si muove tra ciò che è costruito e ciò che è naturale, tra ciò che è manifesto e ciò che è nascosto. Essa non si propone come rappresentazione naturalistica del mondo, ma è piuttosto una pittura realista che abbraccia in un unico sguardo, dall’inorganico all’organico, ciò che è visibile e ciò che è invisibile, nella consapevolezza del fatto che tutto proviene da una radice comune. Nei quadri di Camporese non è l’apparenza delle cose a prendere corpo, bensì il suo processo di formazione, dal quale traggono origine tutte le forme. La sua pittura non è mai forma compiuta. La formazione del segno, seguita dal colore è genesi e, se la sua pittura ha per oggetto il mondo visibile, è perché di questo ricerca non ciò che si offre all’occhio ma appunto la genesi nascosta. “L’alba del visibile”, questo è l’oggetto della pittura di Camporese e tale oggetto appartiene all’opera d’arte e non alla natura.

La sua pittura riconduce al principio delle cose: alla terra, all’acqua, all’aria al fuoco, lì dove la presenza del mondo è restituita nella sua non visibilità, a quel luogo dal quale proviene la luce delle cose stesse. In questo senso la pittura di Camporese è una pittura che allude e non pretende di raffigurare. Le sue immagini non rappresentano qualcosa che rientra nell’esperienza comune, quella che organizza il visibile in una parata di oggetti identificabili. L’immagine è una “Epifania” e non la rappresentazione di un modello. Ciò che in questi quadri è visibile non ricorda nulla che i nostri occhi abbiano già visto ma allude a qualcosa di conosciuto. Di qui la consapevolezza che la pittura non è mera rappresentazione e insieme che la totalità non si esaurisce nell’ambito del visibile. Di qui la coesistenza nei suoi quadri di rappresentatività e astrattezza, quasi a suggerire che l’invisibile, al di là del quadro, si può dare solo nell’al di qua del quadro stesso, dal momento che è in questo che la rappresentatività si presenta sempre come la possibilità di riconoscere qualcosa che quei segni possono solo suggerire. In questo senso l’importanza che hanno i titoli dei quadri di Camporese consiste proprio nel fatto che essi suggeriscono, più che descrivere, il tema del quadro. Ed proprio nel rapporto fra titolo e tema che si manifesta quell’ironia che è uno dei tratti più caratteristici della pittura di Camporese. Tutta la produzione di Camporese è attraversata dalla dualità irriducibile della linea e del colore. La sua pittura non rende visibile un misterioso invisibile, ma offre agli occhi un visibile che è sempre “altro” da ciò che appare. Così essa pone sotto gli occhi l’alterità di tutto ciò che è: non cose già compiute, ma la genesi di organismi che restano sempre nell’incompiutezza. E’ in questo senso che la sua opera resta “astratta”. L’astrazione di Camporese muove da un bisogno di concretezza, dal bisogno cioè di restituirci la natura nel suo divenire. Non a caso è proprio la natura nella propria genesi a costituire il vero oggetto della sua pittura. E, se le sue forme sono sempre formanti, è perché danno luogo a immagini non statiche ma sempre in divenire. Così questa pittura, rendendo visibile ciò che altrimenti non si potrebbe vedere, si offre all’occhio dello spettatore reclamandone lo sguardo. E’ come se i segni fossero segno di un errare, frammenti di una totalità perduta. Lo stesso occhio dello spettatore non può che vagare tra questi frammenti, perché solo in essi si può riconoscere, come d’improvviso, i segni di quella totalità. Nel suo fare appello al riconoscimento, la pittura di Camporese si rivolge alla memoria: è la pittura della memoria, di una memoria involontaria che ci fa sentire di colpo fuori dal tempo e dallo spazio, rendendo presente quell’eternità che solo l’opera d’arte può mostrare. Così l’arte rende visibile qualcosa che esiste solo grazie a essa.

 

Alfredo Maria della Valle