Recensioni dell’artista

 

PROFILO DELL’ARTISTA di Licia Cherchi

 

Narrava e modellava, un tempo, lo scultore; e si sentiva erede della sua terra e dell’acqua che quella terra lambiva e da cui era affascinato: l’argilla e Padova; l’acqua e Venezia; gli animali: l’anfibio e il pesce.

Venezia lo chiamava, e lo scultore rispondeva, con la pretesa allegria dei suoi Arlecchini di argilla patinata, malinconici e cupamente colorati, oppure dorati, servitori illustri di più illustre città-padrona: Arlecchino contorto in un’acrobazia estrema di sfere dorate (Arlecchino Bianco) o seduto nel vento nell’eterno invito al mutamento (Arlecchino e il Vento che cambia); Arlecchino  inseguito dal mito (Arlecchino e i Titani) o da quel desiderio di oro alchemico (Arlecchino e la Pietra Filosofale), non reale, anchesso finto, come il giovane Arlecchino  Maschera nella Maschera (Arlecchino Double Mask).

Ma a chi gli chiedesse della sua vera passione d’arte e di vita, lo scultore parlava sempre e ancora della fuga Presente e Quotidiana nell’atelier sotterraneo dell’Arte Passata, dei Grandi Maestri a lungo amati, della Metamorfosi e della reciproca Alchimia di Terra ed Acqua, in un appena accennato Sur-realismo nascosto ai più.

Cosìmodellava, lo Scultore: aggiungeva e toglieva volume al fango, frutto della terra, e ne faceva fiore  di preziosa ceramica;  bagnava, asciugava, cuoceva offrendo calore e vita a Rane che, insieme a Tritoni e Gechi, s’attorcigliavano intorno a esili colonnine direttamente venute dal Rinascimento, l’età dell’Oro così cara. All’argilla si appendevano pigre quelle forme zoomorfe amiche, sospese tra terra e mare (Renaissance).

E modellava i corpi umani, il Maestro: l’età avanzata e la giovinezza insieme, e il dualismo delle relazioni.

Lo chiama e lo conquista la coppia (Romana? Etrusca?) che si affaccia al paesaggio del presente dal balcone di quell’antichità indefinita  e guarda verso di lui, drappeggiata a festa (celebrazione di vita o di morte?) (Terrazza); così in un sogno vigile gli/ci appare la regale Kore, l’assorta fanciulla  protettrice delle creature metamorfiche, lucertole e aguglie appuntite, che l’accompagnano all’affacciarsi al balcone di un “altrove” tutto da scoprire. (Onirico Balcone)

Continuava a parlare di sé, lo scultore, se lo si interrogava, della metamorfosi insita nell’atto artistico: l’uomo poeta/artista di creta, nato da terra e radici sicure e profonde si fa tutt’uno con l’acqua e i suoi abitanti, pesci, crostacei, cefalopodi, molluschi, in un tripudio di vita  (New Poet).

La compenetrazione diviene completa e quasi sacra, riverente, alla Cosmé Tura,  con il mondo della natura:  fusione, alchimia e trasformazione.( Cassopipa- Cassopipa 2) E, come talvolta nel maestro ferrarese, la luce del surreale diventa assoluta necessità in simbiosi completa con il simbolo rappresentato: il colore, trasfigurato dalla luce, è profondo azzurro marino o infuocato rosso di pietra filosofale, nutrimento e strumento del poeta per la sua creazione.

Anche nell’elemento umano, l’alchimia che trasforma in “vivente altro da sé” diviene evidente nelle ali/branchie che spuntano e si librano (nuotando nell’aria), conservando della tradizione solo il candore nordico di certa preziosa porcellana solo macchiata dal blu del mare. (Alchimia).

Alla fine di tutto, narrava  lo scultore, ancora una volta, della scarlatta pietra filosofale di Arlecchino, divenuta ormai strumento astratto e simbolo di trasformazione (amorosa e dolorosa in Open Heart), e fuoco sacro (Red Fire), in grado di trasformare se stessa nel percorso dalla prigione della Materia verso la libertà dell’Idea (Pacchero-La Fata Verde) e all’ebbrezza causata dalla raggiunta libertà.

E si trasformava, la pietra filosofale insieme al suo ignaro Arlecchino, in grido di dolore per il Simbolo violato, nell’ assemblage di Venezia Affonda

Da quel grido, la città trasparente rinasce e riaffiora come araba fenice in tutta la sua preziosissima luce d’oro: simbolo astratto e realtà concreta al tempo stesso, così senza Tempo. (Venice)

CARELLATA di Giuseppe Coccato

 

Ricordati uomo che sei polvere ed in polvere ritornerai….
E quella volta sulla terra ci sputò sopra …ed eccolo modellato l’uomo…con l’anima insufflata…
Ed ecco la nostra preistoria che ci restituisce  terrecotte maternali uscite e composte dall’utero terra, psicanalitico luogo dei nostri giochi regressi infantili quasi divini giochi a creare.
Cosa ci può essere di più nobile di qualcosa che trasfigura l’elemento più comune, più terraterra facendolo veicolo di umanità, specchio per niente opaco del nostro esserci…
del nostro fallire come Icaro, proiettati verso l’assoluto piombati giù nella creta del nostro Camporese… che ci offre camomille tranquille per riposarci o calmarci o improbabili pose yogiche sicuramente vulvari per il nostro occhio indiscreto di voyeur…e le alici erano felici di essere mezze umane o infelici di essere accomunate a così nefasta specie?
Questi suoi uomini o donne di terra, appena toccate dal vizioso colore, ti guardano con sufficienza come se noi fossimo terre e non loro…ma mi sa che sono figure sole, solinghe solitarie presenze che stanno come dicevo a guardare magari in torsioni avviluppanti se stesse in impossibile abbraccio.
Oppure in coppia si guardano in tresca  e ci ignorano e si dilettano nel loro mondo monologo a due…ma cosa avranno da dirsi che non sia già stato detto?…dispetto!
Ci mancavano solo i manifesti scultura per sbatterci addosso e ricordarci l’orrore mediatico dei saltimbanchi di turno…arlecchini compresi… ma non compressi nell’attimo prima del salto…e di già… mi sento un po’ come loro e mi diletto anch’io contagiato da terra ben cotta che raro scoppia al maestro.
Carellata d’umani ritratti a volte miti un poco nefasti, ricordiamo  Narciso, dal nostro artista infornato, la fine che ha fatto…monito a noi o a se stesso…a saperlo…
E quando l’umano  troppo umano diventa insopportabile c’è ancora altra terra da mescolare e plasmare e con forza palpare e dar forma astratta a totem primari o biomorfismi primevi quasi appena emersi dalla brodaglia primordiale che dopo tanta terra e miscugli vari, magari smaltati, produrrà la pustola umana.

Giuseppe Coccato

PROFILO DELL’ARTISTA di Licia Cherchi

 

Paolo Camporese è nato a Padova il 14 febbraio 1961. La sua istruzione fu originariamente orientata verso le scienze: si è laureato in Scienze Agrarie e dopo il Dotorato di Ricerca, otenuto nel 1992 presso l’università di Bologna, ha iniziato la carriera accademica come Professore a contrato presso l’università di Padova. Insegna Scienze al Liceo Scientfico “G. Galilei” di Selvazzano (Pd). Paolo Camporese non ha scelto l’Arte: da quella è stato scelto. La passione per la scultura lo ha colto mentre egli percorreva la via più lontana da quell’arte: il cammino della Scienza, della Conoscenza Empirica e Razionale della Natura. ma si può sostenere forse che l’Arte non sia l’Al- ter Ego della Natura, il suo simulacro di sogno, l’infantle amica immaginaria e sua severa sorellastra? Dal legame “Terra – Creazione – Sviluppo Spirituale” sono nat, e di quello si sono nutrit, l’amore e la pas- sione per la creta, il materiale più semplice e grezzo ma anche il più originale. Così la materia preferita da Paolo Camporese è ora la terracota: ha imparato il modellato nella sua cità na- tale, presso lo studio di uno scultore. Qui ha acquisito i rudiment, prima, e poi la maestria delle tecniche art- stche, in seguito al lavoro di ingrandimento di sculture famose di di S.Dalì e F. Lèger. In seguito ha appreso l’uso degli smalt e degli ingobbi in un laboratorio di ceramica di Este. L’artsta ha una passione innata per la scultura che unisce all’amore per le forme classiche. Il risultato sono forme “dote”, che esprimono la sua co- noscenza della realtà ma non si fermano a quella. Paolo Camporese vaga nel Passato scoprendo atraverso il Presente la strada verso il Regno dello Spirito, come il Bambino Pre-romantco, ricco d’esperienza eppure in- nocente, ancora legato agli ideali classici ma desideroso di liberarsi atraverso i modelli della modernità. Ecco allora che Paolo ci dona in argilla patnata le figurine abbandonate  di donna, che tanto ricordano I bronzet Etruschi. Gli smalt astrat, invece, con il loro lieve tocco di colore, rivelano il tentatvo dell’artsta di affran- carsi dalla materia per raggiungere l’Anima delle Cose e la sua intma simmetria. Qui l’artsta trae ancora ispi- razione da temi e motvi classici, ma li combina con le ricurve torsioni e le distorsioni della modernità, non disdegnando un pizzico di un’enfasi erotca di sapore  quasi Barocco. Lo smalto dorato della più pura tradi- zione bizantna ricopre e rifinisce le figure astrate così come quelle mitologiche o allegoriche, in una ricerca contnua del rifugio rassicurante del tempo antco. Infine, l’interesse principale di Paolo Camporese rimane l’Elemento umano e la sua analisi: I Volt e le Teste dei Bambini del 17° o del 18° secolo rifletono caraterist- che psicologiche universali, condivise atraverso il Fluire contnuo del Tempo, ma rivisitate e ricostruite atra- verso occhi e sensibilità moderne.

Licia Cherchi